La pizza racconta. L’importanza di educare il cliente

Da dove transita la conoscenza? Come trasmettere a un cliente le informazioni utili a distinguere un prodotto di qualità da uno che ne ha poca oppure ne è addirittura privo?

 

Il mondo della pizza ha ormai preso una strada molto simile a quella della cucina: meglio ancora sarebbe parlare di alta cucina e, perché no, di alta pizzeria. In fin dei conti molte sono le variabili in comune, a partire dal valore degli ingredienti, che in un caso combinati tra loro costituiscono il piatto e dall’altra sono fondamentali per una farcitura che sia in grado di armonizzarsi al meglio con l’impasto che il pizzaiolo sceglie per valorizzarla. C’è da chiedersi anche se, a proposito di pizza, debba vincere l’impasto oppure a prevalere sia il topping: non è scontato che la risposta a mio giudizio corretta, ovvero che quel che porta una pizza a essere davvero buona, è il perfetto equilibrio tra il primo e il secondo. La grande questione è però quale sia il modo per fornire al cliente/consumatore dei criteri utili a determinare un giudizio che non potrà mai essere per sua stessa natura realmente oggettivo.

Il tema è piuttosto semplice: provate a proporre un’ottima pizza napoletana realizzata con tutti i crismi del miglior disciplinare disponibile a un utente medio del nord Italia abituato a una classica pizza servita per esempio tra Friuli-Venezia Giulia, Veneto e Lombardia: quella che è scioglievolezza apparirà come una mollezza eccessiva, il cornicione, per quanto ben fatto, sembrerà troppo esagerato in termini di dimensione. Viceversa, provate a sottoporre a un cliente napoletano una pizza realizzata con quelli che sono i criteri gustativi tipici del nord e sarete sorpresi da quanto poco saranno apprezzate una pasta molto ‘tirata’, il cornicione basso e spesso quasi inesistente e una croccantezza più o meno evidente ma sempre ben presente, tanto da far sembrare la pizza biscottata. Questo per quel che riguarda l’idea tradizionale che i consumatori medi hanno della pizza, perché per quanto si siano diffuse in tutto il paese, le pizzerie contemporanee, ovvero quelle che tempo fa erano note come gourmet, esse sono ancora in netta minoranza. E non è certo la maggioranza quella che tra le pizzerie propone una ricerca davvero come si deve in termini di farine utilizzate, lievitazioni, maturazioni e ingredienti. 

Certo anche i pizzaioli, a ruota degli chef, stanno prendendo piede sugli schermi televisivi con programmi che ne esaltano le abilità. Questo però, al di là di attirare l’attenzione su un tema dalla vastissima popolarità, non aiuta ad approfondire. Anzi, rischia di creare quella tipica sindrome da slogan che affligge il cliente che si percepisce come acculturato perché ha sentito dire questa o quella cosa in televisione, che, intendiamoci, non per forza saranno un concetto o un’informazione sbagliata, ma certamente saranno tesi a un’eccessiva semplificazione.

Alcuni esempi? L’idea che una farina macinata a pietra sia necessariamente migliore di una che non lo è: ma chi sa approfondire che cosa significhino realmente quelle parole. E perché il lievito madre deve sembrare per forza una scelta più nobile del lievito di birra? Ancora – e qui ci ritroviamo ben lontani da ipotesi concilianti – chi non è al corrente della scuola di pensiero che vede l’unica cottura possibile rigorosamente in forno a legna, salvo il fatto che al di là della maggiore complessità tecnica che richiede la sua gestione ormai molti grandi pizzaioli si sono convertiti all’elettricità con risultati decisamente egregi e nella stragrande maggioranza dei casi anche molto migliori?

Ecco quindi che l’informazione al cliente si dimostra un problema piuttosto spinoso, perché se la televisione non aiuta, riviste specializzate e guide tendono a rivolgersi a una fascia di utenza mediamente già autoselezionata e spesso i contenuti tendono non tanto a fare cultura quanto a raccontare storie e stabilire classifiche. Certamente queste ultime, nella misura in cui il lettore sceglie il mezzo che più si confà tanto alle sue esigenze quanto alle sue preferenze, sono uno strumento utile per chi volesse iniziare a stabilire la coerenza tra l’attribuzione di un punteggio più o meno alto e il proprio gusto: nel caso il rapporto si dimostrasse soddisfacente, si sarebbe ottenuto un primo risultato in merito a un modo abbastanza valido per orientare. È però incontrovertibile, in fondo, che sia l’esperienza il primo vero test che aiuta il consumatore (o almeno quello disposto e aperto ad apprendere) a discernere in termini di qualità.

Per questo è assolutamente strategica l’attività che mette in atto chi gestisce la pizzeria, cercando di portare un minimo di cultura oltre a una buona pizza nel piatto. Questo attraverso menu magari più corti, spiegando senza arroganza il perché, per esempio, non abbia senso chiedere variazioni su una pizza quando è stata concepita per essere farcita in un certo modo oppure ancora quale sia davvero il segreto di una pizza che si fa digerire perfettamente e non fa passare una notte a rigirarsi nel letto assetati. C’è da fare, ma si può fare.

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