
Che cosa sia oggi la pizza di qualità e in che modo si possa riconoscerla come tale è ancora un tema spinoso: da qualche anno ormai si sente parlare di pizza, anche in modo controverso. Al di là infatti dell’indiscussa supremazia ‘culturale’ della grande tradizione napoletana e dell’arte del pizzaiolo all’ombra del Vesuvio che è diventata patrimonio Unesco, si sono fatti conoscere filoni esistenti ma meno noti e sono nate tendenze estremamente eterogenee. Al di là di tutto, delle liti ancora accese e dei dibattiti su che cosa si possa in fondo chiamare ‘pizza’ e quali siano i suoi confini da un punto di vista tecnico-descrittivo, siamo del parere che si possa parlare di genere di pizza e non sia più attuale far riferimento solo e soltanto a Napoli per identificare un piatto nazionale che nel tempo ha avuto un’importante evoluzione.
Ecco quindi che oltre alla pizza napoletana, regina nell’immaginario collettivo, ci sono pizze dalle provenienze più varie, non più o meno buone, ma differenti. Va ricordato che al nord, agli esordi della pizza, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta del secolo scorso, chi arrivava dal Sud era legittimato a fare pizze più per un accento inconfondibile che per una reale competenza tecnica nel realizzarle. Da qui pizze che con la napoletana verace avevano davvero poco a che fare, a parte la forma tonda: molto distese, dal cornicione pochissimo pronunciato, spesso più croccanti che scioglievoli. Insomma, un’altra cosa, tanto che una volta arrivato qualche pizzaiolo napoletano vero non era quello ad avere più successo con la sua pizza, date le abitudini nordiche.
Gli aspetti tecnici legati alle varie tipologie di pizze, agli impasti adottati per realizzarle, alle differenti modalità di lievitazione, alle diverse alimentazioni dei forni, richiederebbero una piccola enciclopedia per essere trattati. Sta di fatto che ormai da più di un decennio sono saliti alla ribalta pizzaioli con idee differenti su che cosa sia pizza: maestri assoluti come i tanti grandi napoletani, Franco Pepe nel casertano, grandi personaggi come i veneti Simone Padoan de I Tigli e Renato Bosco di Saporè ne hanno rivoluzionato la forma espressiva. Non manca la tradizione romana, con approcci legati all’alta panificazione come quello di Gabriele Bonci o lo stile di Giancarlo Casa de La Gatta Mangiona, il ‘padellino’ torinese, la croccantezza della pizza in teglia e ancora l’area emiliana con i fratelli Aloe di Berberè e il faentino Davide Fiorentini con O’Fiore mio. Questo per parlare dei precursori, perché si può dire che ormai ogni angolo d’Italia abbia la sua pizza. Montagna inclusa, con Denis Lovatel della pizzeria da Ezio che ad Alano di Piave nel bellunese (e da poco anche a Milano) ha fatto conoscere il suo impasto che genera un prodotto sottilissimo e crunchy che nasce da una pallina di soli 170 grammi ed è stato il primo a lavorare sul tema della sostenibilità in questo mondo ormai incredibilmente eterogeneo.
Inutile quindi ormai continuare ad accapigliarsi in cerca di una definizione di cosa sia e cosa non sia pizza, salvo distinguere tra ‘tipo’ napoletana e quella che si potrebbe definire una gamma di pizze ‘contemporanee’. Anche perché il termine gourmet è ormai sorpassato e vuol dir poco, soprattutto alla luce di una qualità che nel tempo si è innalzata tantissimo. Quindi, bando alle posizione estremiste, come si riconosce la pizza di qualità? Gli impasti sono i più disparati, così come le lievitazioni: non esiste il modo migliore in assoluto, certamente esiste quello che valorizza un tipo di pizza piuttosto che un’altra. Perciò è inutile confondere il consumatore con affermazioni perentorie e incontestabili: non è un lievito madre in sé (che va gestito con grande sapienza) a rendere una pizza migliore rispetto a una realizzata con lievito di birra, con impasto diretto o con l’utilizzo della biga, ma il risultato ottenuto attraverso la maestria dell’artigiano che la realizza. Poi esistono le preferenze maturate da ciascuno nel tempo: come si era già detto prima, non è automatico che una ‘verace’ napoletana incontri il gusto del pubblico del nord abituato a pizze in genere più croccanti e dal cornicione meno voluminoso. Né è inciso sulla pietra che lo stile a ‘focaccia’ sia da preferire tout court a uno più tradizionale.
Ci sono invece criteri più, se vogliamo, ‘oggettivi’, come ad esempio la cottura, che dev’essere omogenea in modo tale da non presentare bruciature eccessivamente marcate nel caso della tonda, né dev’essere gommosa al morso o avere parti eccessivamente umide. Troppe bolle sono un indice di una lievitazione imperfetta. Un indicatore di buona cottura si ottiene anche schiacciando il cornicione con un dito e rilasciandolo: non è un buon segno, se non risale. E a proposito di cornicione, andrebbe sempre mangiato, anche per apprezzare la pasta lievitata in purezza.
Qui arriviamo a un punto dolente che è la digeribilità dell’impasto, la quale più che dalla durata più o meno lunga della lievitazione arriva dalla sua successiva maturazione. Su questo tema si innesta la questione delle farciture, anche queste determinanti in relazione al gusto, alla digeribilità e al valore calorico di una pizza. Le materie prime scadenti non sono ancora del tutto fuori gioco, ma le pizzerie migliori sono quelle che guardano con attenzione alla stagionalità dei prodotti utilizzati, alla selezione di fornitori che garantiscano un’alta qualità di prodotto, meglio ancora se arriva dal territorio e rispetta criteri etici e di sostenibilità.
Non ultima la selezione delle bevande disponibili, si tratti di birre o come ancora non è scontato, una carta dei vini che spesso si abbinano ancor meglio alla pizza. Si tratta di saper scegliere una pizzeria diffidando in ogni caso di prezzi eccessivamente contenuti e luoghi troppo sovraffollati, pena la garanzia di una notte a cercare acqua e a rigirarsi nel letto in continuazione a causa di impasti improbabili e ingredienti di second’ordine. Perché, va ricordato ancora una volta, la pizza non è più soltanto uno street food da consumare di corsa, ma può ben rappresentare una nuova espressione di confine con la cucina, anche alta, grazie a professionisti sempre più preparati e ambiziosi.